Segni d’oro di Domenico Starnone

A pochi passi dalla biblioteca scorreva il fiume Sacco ed emanava un tanfo che ogni respiro era come se una cannonata mi avesse trapassato il torace. Nessuno però sembrava farci caso. (…) Io invece mi ero subito persuaso che in certi giorni dalle industrie della valle soffiassero filamenti vetrosi sui quali correva un odore di muffa  e di uova marce che a respirarlo tagliava l’ugola  e le corde vocali. I filamenti li vedevo luminosi e colorati nel sole, tracce lasciate da pennelli che striavano vernici al piombo. Essi trasportavano sotto i miei occhi tetti grigi, ciminiere, vapori di solventi che scioglievano i polmoni e le viscere, come le righe di un foglio trasportano parole, come circuiti d’un congegno elettronico saettano impulsi. Quindi si annodavano nel fiumiciattolo nero e tramavano insieme un cielo nebuloso e il pelo dell’acqua scarsa ma spessa.

tratto da Segni d’oro di Domenico Starnone, Feltrinelli editore

Il narratore, è un grande lettore, che pensava di insegnare all’università e invece si ritrova bibliotecario per caso. Dopo un lungo fidanzamento, ha sposato Virginia e si sono trasferiti a Roma al piccolo paese di Montemori, tra Montezagara e Colleferro, dove lei insegna e lui svolge una non meglio precisata “attività di studioso”, facendo ricerche per conto altrui, spesso immerso in fantasticherie letterarie. Viene coinvolto dal comune nella preparazione delle celebrazioni per il centenario del fondatore dell’industria locale, Francesco Sani Mortella, tenuto in gran considerazione dai notabili di Montemori. Comincia perciò a indagare su una fabbrica inquinante e pericolosa, e su amori del passato. Si trova intanto a dover fare i conti con una crisi coniugale, una fuga sui Colli Euganei, sulle orme di Jacopo Ortis, e la passione. “Segni d’oro” è un romanzo breve, ironico, ora amaro, ora divertente, dove si uniscono impegno politico, denuncia sociale, follia d’amore. Un libro che si legge d’un fiato.

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Domenico Starnone ha insegnato a Colleferro (Rm) nella seconda metà degli anni 70

DOMENICO STARNONE – Il manifesto è il mio giornale da oltre quarant’anni. Per quasi trentacinque ci ho collaborato, per più di tre lustri ho lavorato in redazione: la mattina insegnavo, di pomeriggio passavo pezzi, facevo titoli, mettevo in pagina. Tuttora è solo la stanchezza, o forse la pigrizia, a impedirmi di scriverci con continuità. Cominciò una volta che saltò per aria la Snia di Colleferro, a quaranta chilometri da Roma. Insegnavo lì, telefonai al manifesto, dissi: «Qui è successo un brutto guaio, mandate qualcuno». Il centralino mi passò una redattrice, era Carla Casalini, le raccontai di Colleferro. «Sei analfabeta?» mi domandò. «In che senso?». «Nel senso che non sai né leggere né scrivere». «No». «E allora perché dobbiamo venire noi? Scrivi tu». Carla era così, ma lei era anche il meglio di un’epoca, di un modo di stare al mondo che spezzava schemi collaudati e si provava a inventarne altri. Oggi non so se ci si rende conto abbastanza che tra i molti meriti del manifesto bisogna metterci anche una specie di democratizzazione dell’accesso alla scrittura giornalistica. Carla mi stava dicendo: non ha importanza il nome, il cognome, cosa fai o non fai nella vita. Hai sotto gli occhi cose rilevanti? Hai un tuo modo di guardare? Scrivi, vediamo se sei in grado di convincermi a metterti su questo giornale, in queste pagine. Se non sei in grado, ti cestino. Non mi cestinò e da allora cominciai a scrivere con continuità di fabbriche chimiche, del contratto dei chimici, pur sapendo poco o niente di quel settore. Era l’altra cosa nuova del giornale: se non sapevi, dovevi imparare e se non imparavi bene peggio per te. La scrittura sul manifesto presupponeva lo studio, era uno sforzo quotidiano di capire ciò che era altro da te, e studiare faceva tutt’uno con la passione politica. Non era un lavoro buono per vivere, non ti dava una posizione di prestigio. Se la passione si affievoliva, se la curiosità cessava, se di imparare e di prendere parte non ti andava più, scrivere non serviva e come avevi cominciato così smettevi. Una grande lezione. Voglio aggiungere un altro paio di cose . Da ragazzino desideravo fare lo scrittore e tra i tredici e i vent’anni ce l’avevo messa tutta per dimostrare a me stesso cosa sapevo fare. Un giorno mi sembrò che tra me e la Letteratura che adoravo c’era un abisso ed era inutile trovare giustificazioni, l’abisso c’era e basta. Con dolore smisi di coltivare la mia vocazione, mi laureai e andai a insegnare. Fare l’insegnante mi piacque così tanto che presto l’idea di scrivere sbiadì. E’ stato su queste pagine che, già sopra i quarant’anni, mi è tornata la voglia di raccontare, ma tutta cambiata, senza la superbia adolescenziale che mi aveva indotto a smettere. La scrittura, dopo gli anni al giornale, era diventata abitudine al rigore, disciplina (nemmeno cinque righe andavano buttate giù con sciatteria) e, insieme, un diritto di chiunque avesse anche cose piccole piccole da raccontare e fosse in grado di non tradirne l’autenticità. Aveva messo radici la lezione di Carla: se sai scrivere, prova a raccontare, poi si vede. Ecco, dunque. Senza il giornale, molti, moltissimi, non avrebbero mai avuto modo di sperimentare se avevano talento oppure no nel dar conto del loro modo di manipolare le cose del mondo. E ho l’impressione che ancora oggi, malgrado tutto, sia così. Per ultimo quel “comunista” accanto a “quotidiano”. Non ci ho mai sentito lo sfregio degli orrori veri che sono stati commessi per il mondo sotto quell’etichetta. “Comunista”, su questo giornale, ha significato in passato e significa tuttora che oltre il perimetro dominato capillarmente dal profitto c’è altro, ci deve essere altro, e il compito di un quotidiano anomalo, oggi più che mai, è lavorare a segnalarlo, ad avvistarlo. Naturalmente siamo tutti d’accordo che niente va tenuto in vita per forza. In genere alle stagioni più intense seguono quelle più tenui e infine il declino. Il problema, però, è se questo giornale ha portato a compimento il suo ciclo vitale. Io credo di no, basta guardarsi intorno. Ne abbiamo bisogno più che mai.

da Il Manifesto del 19-02-12

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